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"QUIERE UN CIN DE CON-CON?"
«Papà,
Jènny esta preña!»
Aveva
appena finito di girare la chiave nella serratura e stava spingendo in avanti
la porta d’ingresso dell’appartamento.
L’esclamazione, proferita con una voce
squillante, lo raggiunse mentre non aveva ancora oltrepassato la soglia.
Individuò,
senza ancora vederla, l’autrice delle parole nella più piccola delle tre
sorelle.
Non
n’aveva completamente compreso il contenuto.
Immaginò
che la fanciulla avesse voluto, con una battuta bizzarra, introdurlo
nell’atmosfera di una tipica cena, organizzata secondo le usanze degli abitanti
della sua isola.
Lui era, effettivamente, in ritardo di oltre mezzora; e i bambini, quando hanno
fame, non scherzano.
Accettò
di immedesimarsi nella figurazione,
mentre entrava nella sala da pranzo-cucina:
«Molto
bene!… La nostra squadra di vela di cadetti ha sempre bisogno di nuovi arrivi!…»
L’espressione,
scherzosa e gioviale, fu, però, smorzata dallo sguardo intenso che gli diresse
la mamma, prima che potesse completare il pensiero mentre distribuiva copiose
cucchiaiate di riso con movimenti maldestri.
Erano
tutti intorno al grande tavolo di legno finto: la mamma, la figlia tredicenne,
il fratello piccolo, le loro due zie poco più che ventenni. C’era, pure,
un’altra giovane signora, che non conosceva, con gli stessi tratti somatici.
Al
centro della tavola, la solita grossa scodella fumante, ancora semicoperta
dalla carta stagnola, colma degli speciali chicchi stretti e allungati di
provenienza orientale.
Sulla tovaglia di materiale gommoso, a quadroni
grigi, ancora impiastricciata dei residui di cibo del precedente pranzo,
c’erano piatti di plastica impilati, bicchieri e posate dello stesso scadente
materiale.
Altre
tre zuppiere di coccio contenevano platano bollito, una zuppa dei tipici
fagioli rossi e pollo in umido con la pelle bruciata dallo zucchero di cui era
stato cosparso il recipiente di cottura.
«Ma,
… è un gioco, … no?»
Si
sforzò di tenere un atteggiamento distaccato; ma non ci riuscì.
«Questa
qui è soltanto alla ventesima settimana di gravidanza!»
Le
parole furono pronunciate dalla mamma, con un tono normale, come se parlasse di
un fatto ovvio e naturale, indicando la ragazzina con gli occhi, senza smettere
la distribuzione del riso.
«La
cena è pronta!»
«Quiere
un cin de con-con ?»
«Come?»
«Vuoi
con-con?»
«Eh?…»
«Vuoi
con-con?»
«Ah!…
Con-con!… No grazie!»
«Io,
…. Io, … dai a me il con-con!»
«Io
voglio il pollo! Solo la coscia, … due cosce!»
«Aspetta,
… dopo arriva il pollo, … vuoi il con-con?»
«Anch’io
voglio la coscia!»
«Voglio
anche i fagioli!»
«Prendi
l’acqua dalla cannuccia.»
«Ma
la coca cola è calda!»
«Mi
dai il ghiaccio?»
«Non
la voglio questa forchetta; … si storce tutta!»
Era
una baraonda di richieste da ogni parte della tavola che si accavallavano le
une sulle altre.
Non
si era ancora tolto il soprabito. Come un automa prese un bicchiere che stava
sul lavandino della cucina, forse già usato da qualcuno, lo riempì d’acqua
direttamente dalla cannella, e lo accostò alle labbra. Bevve in silenzio; a
piccoli sorsi, prima; poi, tutto di un fiato.
Nonostante,
che di quelle situazioni disordinate avesse, ormai, acquisito una forzata
esperienza, la sua mente cominciava a sfuggirgli al controllo. Vi si
presentavano pensieri che, non ancora completamente formulati, già erano
sostituiti da altri:
«Mi
pare proprio uno scherzo cretino!»
«Se
questo è uno scherzo, è veramente da deficienti!»
«Ma,
se è ancora una bambina!»
«Ed
ha anche un aspetto esile!»
«Ribelle,
ma pur sempre piccola!»
«Discola
e impertinente, ma pur sempre piccola!»
«E
poi, frequenta solo ragazzini della scuola!»
«La
scuola? … Ci saranno dei grossi problemi!»
«Ma,
non è possibile!»
«No,
non ci posso, … non ci voglio credere!»
«Ma,
se è stata sempre sorvegliata e accompagnata!»
Diresse
lo sguardo verso la minuta ragazzina per avere un’ingenua indiretta assicurazione
sul suo stato.
Non
ebbe alcuna risposta, essendo lei seduta.
La
voce della mamma lo richiamò all’atmosfera della cena.
«Quanto
riso vuoi?»
«Poco,
… pochissimo, … due cucchiaiate!»
«Vuoi
fagioli?»
«Poco,
grazie, … una cucchiaiata!»
«Pollo?»
«No,
… grazie!»
«Ma
come? C’è una bambina in quello stato; e, da quanto sono entrato qui, … tutti
si preoccupano, soltanto, della distribuzione del con-con?»
Erano
parole rivolte più a se stesso che agli altri.
In
quegli ultimi anni la sua vita era stata completamente stravolta.
Si
trovava pienamente coinvolto e sopraffatto dagli usi e dalle abitudini della
sua nuova famiglia esotica allargata.
Tra la costernazione dei ragazzi componenti la sua squadra.
Per
loro il capo era diventato un’altra persona.
Da
molto tempo non scriveva più le favole e le storie di uomini.
Come
i corsi della storia, che gli uomini con le loro azioni, comportamenti, scelte, possono solo anticipare o ritardare
poiché seguono leggi naturali che derivano dalla loro conformazione genetica,
così, anche i percorsi dei singoli protagonisti hanno motivazioni e seguono risoluzioni che sono stabilite dalle proprie
origini e dalle culture che li hanno formati.
Il
giorno della stravagante cena non si era reso conto e non aveva capito.
Nel
suo mondo, con un patrimonio di conoscenze e di formazione intellettuale acquisiti
in millenni di storia, quella situazione era il risultato di una grave
sconfitta, per aver permesso che, ad un essere piccolo, fragile e indifeso,
fosse rubata l’infanzia e l’innocenza.
Nel
mondo dove la ragazzina era nata, che gli
uomini del suo mondo avevano modificato, plasmato, violentato,
assoggettato, era una regola non scritta ma generalizzata per cambiare
condizione.
Era
una regola di difesa, per diventare donna, ottenere nuova considerazione,
rispetto nella famiglia, e nella società.
In
una società, nuova per lei, nella quale non si ritrovava.
Quiere un cin de con-con
è un racconto di Guido Fariello
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